Tra centri commerciali aperti e rappresentazioni burocratiche rituali, la giornata del Primo Maggio si è progressivamente svuotata nel tempo di ogni significato conflittuale per trasformarsi in una innocua festività, celebrata dai proclami presidenziali sul significato salvifico del lavoro e bagnata dall’aspersorio papalino osannante Giuseppe, il falegname di Betlemme. Ci hanno provato in questi ultimi anni, in controtendenza, gli organismi del sindacalismo conflittuale e dell’anarcosindacalismo a ridare senso e vigore a una scadenza nata dalla lotta per la riduzione d’orario su scala internazionale, indicendo manifestazioni e proclamando scioperi. Con l’agitazione dei temi legati soprattutto alla lotta al precariato, alla guerra e alla militarizzazione della società hanno ripreso e rilanciato, con risultati altalenanti, la volontà di trasformazione sociale insita in ogni lotta radicale che colpisce lo stato di cose presenti.
Oggi, la posta in gioco è ben più alta. Cercare di costruire forza per strappare miglioramenti normativi e salariali, anche se assolutamente necessario, non è più sufficiente. Il fatto è che un virus ci ha messo di fronte ad altre urgenze e bisogni e gli slogan di ieri dimostrano tutti i loro limiti.
L’intera umanità si è trovata improvvisamente fragile: un sistema basato sull’illusione che dalla crescita potesse derivare solo progresso e che solo il capitalismo potesse assicurare a tutti e tutte benessere e felicità si è decisamente impallato, dopo che già una serie di crisi periodiche – l’ultima, quella del 2008 – l’avevano messo in difficoltà. E ogni continente, ogni paese, si è trovato di fronte ai propri problemi e contraddizioni. La valorizzazione del capitale, passata dalla produzione alla speculazione finanziaria ha incrementato le ricchezze dei già ricchi ma ha indebolito le economie di interi territori impoverendo gli altri. Secondo i più recenti dati dei centri di ricerca, dei 2,5 miliardi di appartenenti alla classe media (coloro che guadagnano tra i 10 e i 50 dollari al giorno) 90 milioni sono scivolati nella povertà, mentre i poveri (quelli così classificati perché hanno un reddito giornaliero inferiore a 2 dollari) sono aumentati di 131 milioni. Anche la classe di reddito alto, superiore ai 50 dollari, registra le sue perdite: 62 milioni sono retrocessi nella classe media. Ovviamente le più colpite sono state le donne, i giovani e chi lavora in proprio (e non solo da un punto di vista economico); le zone urbane sono quelle che hanno sopportato il peso più grande.
Da tempo la deindustrializzazione e la delocalizzazione hanno caratterizzato gli orientamenti di settori significativi del padronato, alla ricerca di manodopera sempre più a buon mercato, in un processo destinato ad accelerare. La competizione economica ha rilanciato la conflittualità politica e i sistemi di alleanze e di integrazione economica si sono andati progressivamente ridisegnando. Ne sono dimostrazione i conflitti nel medio oriente, in Ucraina, la tensione ai Dardanelli e nel Mediterraneo che evidenziano come gli appetiti energetici, sia in terra sia in mare, e la ricerca di territori ove esercitare il controllo economico siano alla base delle instabilità politiche internazionali. Ovunque, dall’Africa all’Asia, dall’America del Sud a quella del Nord, decenni di politiche di tagli ai servizi sociali, di privatizzazioni, di impoverimento, di distruzione dei sistemi economici locali, di una globalizzazione in funzione degli interessi delle potenze mondiali spingono verso una soluzione catastrofica per l’umanità delle dinamiche del capitalismo. Non a caso le spese per il sistema militar-industriale crescono a dismisura nel mondo, anche ora quando sarebbe necessario una loro riconversione per finanziare la sanità pubblica e sostenere chi perde la fonte di reddito e i settori in crisi. E invece continua la corsa al riarmo atomico, al miglioramento dei sistemi di puntamento delle armi nucleari, alla produzioni di armi, di navi, di aerei da combattimento.
Mai come oggi è evidente che un sistema basato sull’attività predatoria, sfruttatrice e oppressiva quale è quello capitalista, non è in grado di assicurare un futuro all’umanità che non sia un futuro di distruzione e morte. Un virus di oscure origini ha messo a nudo tutta la fragilità di un sistema, bloccando attività produttive, vanificando progetti e pratiche sociali e culturali, costringendo gran parte della popolazione umana alla reclusione, forzata o volontaria che sia. Rendendo altresì molto chiara l’essenza del potere classista che, utilizzando la pandemia, ha ulteriormente gerarchizzato la società tra chi è degno o degna di vivere, e chi può essere lasciato morire.
Parallelamente, l’emergenza climatica – frutto della stessa attività predatoria – ci indica la necessità di ripensare a un nuovo sistema di relazioni che sconfigga definitivamente la concezione antropocentrica per considerarci finalmente alla pari di tutte le specie viventi nel rispetto del pianeta nel quale viviamo.
Già nei primi tempi della pandemia si diceva ‘niente può essere come prima, perché è proprio il prima la causa di quanto sta avvenendo’. A distanza di quei primi mesi del 2020 questa affermazione è sempre più vera. E invece quello che vediamo, sia in Italia che a livello internazionale, è la tendenza del potere di rifarsi la faccia mantenendo (se non intensificando) quelle pratiche alla base del disastro attuale. Qui da noi hanno messo in piedi un governo di unità nazionale guidato da un banchiere, con i fascisti a fare l’opposizione di facciata, per consentire un processo di ristrutturazione – sostenuto dalla liquidità dei fondi europei – basato sulla sedicente transizione ecologica.
Dove per ecologia intendono il rilancio delle cosiddette grandi opere (grandi perché comportano grandi profitti), TAV per primo, del quale abbiamo già registrato la devastazione dei territori che comporta, poi la digitalizzazione con l’impulso alle reti 5G con conseguente incremento di ripetitori e di inquinamento elettromagnetico, l’elettrificazione del trasporto veicolare come se per produrre l’energia elettrica necessaria a muovere i motori – e a far funzionare tablet, smartphone, ecc. – bastassero le fonti di energia rinnovabile e non i minerali fondamentali alla costruzioni delle batterie, in buona parte provenienti da miniere come quelle congolesi, non a caso oggetto di una feroce guerra di fazioni e di uno sfruttamento tremendo anche dell’infanzia; ciliegina sulla torta il puntare sull’idrogeno, verde o blu che sia, con tutte le problematiche che comporta in termini di produzione, stoccaggio e uso. Ristrutturazione favorita poi da una riforma della burocrazia e della giustizia per velocizzare, dicono, i processi decisionali e gli investimenti esteri; in realtà per ridurre ulteriormente controlli e contestazioni.
Green economy? In realtà è solo una riverniciatura di verde a un sistema industriale che vuole continuare a fare profitti, mentre ci sarebbe bisogno di una reale conversione ecologica che affronti il tema dell’abitare con l’inversione di tendenza all’urbanizzazione speculativa fatta di insignificante ‘arredo’ urbano, di grattacieli e di tanto cemento; il tema dell’alimentazione, con il superamento del cibo spazzatura, di quello chimico e modificato, e della grande distribuzione che vive sullo sfruttamento intensivo di una manodopera immigrata e clandestinizzata nelle bidonville parallelamente a quello animale rinchiuso nelle gabbie e nei recinti degli allevamenti intensivi; il tema della produzione e del consumo che non possono più rimanere nelle mani di pochi a fine esclusivo di profitto, ma devono essere ripensate per un uso sociale, collettivo e condiviso.
E ora soprattutto il tema della salute e della cura, con quello che stiamo vivendo in conseguenza del Covid 19.
Non è più possibile tollerare un sistema che fa del profitto il suo principale obiettivo nell’affrontare il tema della sanità pubblica. In Italia come altrove i tagli alla spesa pubblica, operati da tutti i governi ormai da decenni seguendo le linee guida neoliberiste, la riduzione del personale sanitario e l’incremento del carico di lavoro, le politiche di privatizzazione e di aziendalizzazione, il privilegiare alcuni campi di cura, più redditizi, a scapito di altri, hanno permesso che un’epidemia sicuramente seria ma governabile assumesse una dimensione tragica soprattutto per gli strati più fragili e poveri della società. A questo si aggiunge la questione vaccinale che ha evidenziato il modello d’affari grazie al quale l’industria farmaceutica genera da decenni margini di profitto astronomici alla faccia dei bisogni della salute delle popolazioni. Considerare la salute come un prodotto commerciale qualsiasi da cui ricavare il massimo del guadagno è intollerabile. Come è intollerabile concentrarsi nella produzione di medicinali utili al trattamento di malattie croniche, di lunga durata, che danno guadagno e ignorare le terapie per le malattie infettive particolarmente presenti nei paesi poveri, che non rendono nulla. La sanità deve essere universale, aconfessionale, gratuita, libera da condizionamenti e deve essere sottratta alle grinfie delle multinazionali e del profitto, così come tutti i beni e i servizi primari necessari per la vita su questo pianeta, come pure i ritrovati realmente efficaci per la cura delle malattie devono essere messi a disposizione di tutti demolendo la logica speculativa del brevetto.
Centotrentacinque anni fa, il Primo Maggio 1886, la Federazione dei Lavoratori di Stati Uniti e Canada proclamò lo sciopero generale per le 8 ore di lavoro, 8 ore per il riposo e 8 ore di tempo libero per affermare il valore del tempo di vita e per cominciare a liberarsi dall’oppressione del lavoro salariato e subordinato. Un bisogno incompatibile con le ferree leggi del capitale e dello stato. Un bisogno che mina alla base il concetto stesso di lavoro salariato.
Lo stato, per bloccare il movimento di lotta di cui colse le potenzialità sovversive, imprigionò e impiccò gli esponenti, nativi e immigrati: cinque anarchici che in seguito furono ricordati come i martiri di Chicago.
Oggi ricordare quella lotta e quei màrtiri può avere maggior senso se se ne coglie la portata: a Chicago non ci fu una lotta rivendicativa, contrattualistica, ci fu una lotta radicale, rivoluzionaria per la conquista del potere sulla propria vita. Quel potere che occorre affermare oggi una volta di più per far sì che nulla sia come prima.
In questa fase di grande difficoltà diventa indispensabile una strategia di rottura con il sistema di dominio. Per fare questo abbiamo bisogno di prefigurare e organizzare, in tutte le sfere della vita sociale, una trasformazione radicale. In questo senso la costruzione di una forza capace di autogestione sociale è indispensabile se vogliamo sconfiggere le classi dominanti, per difenderci dai meccanismi economici e dalle istituzioni che ci opprimono con politiche securitarie e repressive e con gerarchie sociali di comando e obbedienza.
È necessario sostenere in tutto il mondo le organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici, i movimenti che si oppongono al neoliberismo, che lottano contro lo sfruttamento, la precarizzazione e le forme di distruzione della vita sociale e dei territori: il tempo delle riforme impossibili è finito, occorre un ribaltamento della prospettiva di vita e di organizzazione sociale in nome della solidarietà, della partecipazione, della cura, in costante conflitto con il sistema capitalistico. Ma non per ripercorrere strade già fatte che ci hanno portato dove siamo oggi.
Bisogna prendere in mano, direttamente, le proprie organizzazioni di lotta, senza deleghe.
Cambiare la rotta è possibile. Con l‘azione diretta, costruendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali; che pratichino nel contempo solidarietà e che sappiano porre al centro della loro attenzione il tema del controllo della produzione e del consumo, della salute nostra e del pianeta.
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di libere ed eguali è possibile ed è necessario se vogliamo che nulla sia più come prima.
W il Primo Maggio
Massimo Varengo